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Sta girando molto in questi giorni, con il pretesto della #10yearschallenge, un’immagine quasi identica a questa. L’unica differenza è che compaiono due anni diversi: 2009 e 2019. In tantissimi ci avete chiesto se è un’immagine attendibile o meno.
Be’, questa è l’immagine corretta. Non è una 10yearschallenge, è più una 32yearschallenge, ma il discorso cambia di poco. I ghiacci artici si stanno ritraendo a un ritmo preoccupante.
Le due immagini non sono reali ma in un certo senso quasi: si tratta di ricostruzioni realizzate a partire da dati reali raccolti dai satelliti. Si riferiscono in particolare al settembre 1984 e al settembre 2016.
Si nota all’istante la diminuzione dell’estensione assoluta dei ghiacci, ma c’è un’altra informazione più nascosta. Notiamo infatti due sfumature di colore del ghiaccio: quella più bianca rappresenta il ghiaccio più vecchio (da 4 anni in su), mentre quella più scura indica il ghiaccio più giovane.
L’età del ghiaccio è stimata dalla misura del suo spessore fatta attraverso rilevazioni satellitari (in prima approssimazione, più il ghiaccio è vecchio più è spesso). Ecco, l’informazione più inquietante è l’enorme diminuzione di ghiaccio “vecchio” nell’arco di appena una trentina d’anni. Si tratta di un crollo da 1,86 milioni di km² nel 1984 ad appena 110.000 km² nel 2016.
Perché è così importante il ghiaccio vecchio? Perché è più compatto e spesso, quindi più difficile da fondere o da rompere per effetto delle intemperie. La presenza di ghiaccio di oltre 4 anni contrasta la fusione del ghiaccio giovane, pertanto la sua riduzione pone le basi per l’instaurarsi di un circolo vizioso che porta a un tasso di fusione sempre maggiore.
È proprio quello che stiamo osservando: sempre meno ghiaccio e sempre più sottile. Il ghiaccio pluriannuale rappresenta appena il 3% del ghiaccio totale artico, contro il 20% di trent’anni fa. Walt Meier, del NASA Goddard, lo dice molto chiaramente: «Il ghiaccio più vecchio è la polizza di assicurazione per l’Artico: più ne perdiamo più aumenta la probabilità di un’estate senza ghiacci artici». -Filippo
Credits: NASA's Scientific Visualization Studio
Quando hai studiato astrofisica e vuoi fare colpo su qualcuno che non lo ha fatto, la strategia classica è indicare una stella chiamandola per nome e spruzzare qua e là alcune parole complicate ma già sentite, come “orizzonte degli eventi” o “antimateria”. Capisci che funziona quando ti fanno domande.
– Uh, antimateria! Me la spieghi?
– È il “mister Hyde” della materia di cui siamo fatti noi due, le stelle e questo Franciacorta. Gli elettroni hanno carica negativa? Gli anti-elettroni sono identici ma con carica positiva. Metti in contatto materia e antimateria e bum.
– Bello!
– Il bello deve ancora venire. L’universo produce nuova materia sempre a coppie: una particella di materia e una di antimateria, che poi si annichiliscono. Ma se ogni coppia si fosse annichilita, oggi l’universo sarebbe solo un bagno di fotoni.
– Quindi com’è andata?
– C’era un minuscolo disavanzo di materia in più rispetto all’antimateria, sufficiente però a formare tutte le galassie, le stelle e Scarlett Johansson.
– Perché questo disavanzo?
– È uno dei più grossi problemi in fisica. Evidentemente è successo qualcosa di non simmetrico.
– Tipo il neo di Marilyn Monroe?
– Tipo.
– Si vede che l’universo è fatto così.
– Prova a dirlo ai fisici. Loro vogliono capire il perché.
– E come possono fare?
– Hai presente i bambini che distruggono le cose per vedere come sono fatte dentro? Ecco, LHC è la versione nerd di ’sta cosa. Fanno sbattere le particelle l’una contro l’altra per vedere cosa salta fuori.
– Ti prego dimmi che qualcosa è saltato fuori perché qui il Franciacorta è quasi finito.
– Per esempio, se certe particelle di materia decadessero più lentamente delle loro controparti di antimateria...
– … non avrebbero il tempo di annichilirsi!
– Per farlo devono però violare una simmetria che si chiama “simmetria CP”. È una violazione già vista in passato, ma di recente in LHC l’hanno osservata su particelle per cui non era mai stata vista prima. Forse questa scoperta può darci informazioni nuove e avvicinarci alla risposta sul perché siamo qui.
– Tanto voi fisici riuscite sempre a ottenere la risposta.
– Tipo se ti chiedo il tuo numero.
– Oh no, quello scordatelo. -Filippo
Credits: CERN
OSCAR PER LA REGIA A… CASSINI
Se pensate che la vostra vita sia un casino, provate ad aprire un libro di fluidodinamica.
E se non ne avete uno sottomano in questo momento, fermatevi a guardare per un secondo l’atmosfera di Giove ripresa dalla sonda Cassini. Vortici, strutture caotiche, instabilità di Kelvin-Helmoltz… e poi la Grande Macchia Rossa, una gigantesca tempesta larga 25.000 km con venti a oltre 400 km/h che se ne sta lì da almeno tre secoli.
Perché su Giove le cose si fanno in grande, o non si fanno affatto.
Ma non è lì che si posa il vostro sguardo. Le regine della scena sono Io ed Europa, in primo piano, che procedono silenziose e indifferenti lungo le rispettive orbite, per antichissima usanza.
Ma vi ho invitato a guardare prima lo sfondo perché vi rendeste conto del contrasto tra il caos dell’atmosfera gioviana e la delicata leggerezza dei suoi satelliti. Il contrasto tra la fisica complicatissima che regola i giochi di forme sulla superficie di Giove, e quella molto semplice che regola il moto dei satelliti attorno al pianeta.
Tutto ciò ha un che di kubrickiano, o ce lo sto mettendo io?
Poi c’è una dissolvenza al nero, ed ecco Saturno. Oh be’, con Saturno è tutto più elegante, tutto più raffinato. Titano gli passa davanti come un diadema, ma stavolta il vostro sguardo rimane fisso sul pianeta. Gli anelli si vedono di taglio, il satellite ne segue con precisione il profilo, la geometria dell’inquadratura è perfetta. Le curve dell’ombra degli anelli sulla superficie del pianeta, poi, sono quel tocco di classe degno dei grandi maestri.
Non c’è neanche il ricordo della tensione che regna su Giove. Superbo e impassibile come un gatto che guarda dalla finestra, sembra che Saturno sia lì dall’inizio dei tempi. Pare quasi che gli abbiano regalato il sistema solare affinché avesse degli spettatori. Ma in realtà il suo fiore all’occhiello, quei suoi bellissimi anelli, sono una struttura recente, che ha non più di qualche centinaio di milioni di anni e destinata a durare per un tempo ancora più breve.
Sì, forse c’è qualcosa di kubrickiano, in tutto questo... -Filippo
Credits: NASA/JPL-Caltech/SSI/CICLOPS/Kevin M. Gill
PROTOPIANETI, I "GIOVANISSIMI" DELL'UNIVERSO.
Quando due stelle si vogliono tanto bene... Ecco che nasce un pianeta
.
A parte gli scherzi... Durante questa serie abbiamo visto alcuni dei pianeti più particolari dell'Universo; dal bulletto di quartiere, quello più grande, al più saggio e anziano, Matusalemme, passando per i più tenebrosi e per quelli più pericolosi e strani... Ma in fondo, un tempo, al momento della loro nascita, erano tutti molto simili!
❗I pianeti ancora in fase di formazione, si chiamano "protopianeti", e sono caratterizzati da continui bombardamenti di asteroidi o frammenti di vario genere... Si formano appena dopo la nascita di una stella, o dopo una violenta esplosione, e per questo sono circondati da molto materiale attorno a sé, che con il passare di secoli, millenni e milioni di anni, si agglomerano per effetto della gravità del pianeta
⚠⚠NEL POST: Le Prime 3 Immagini Sono Delle Immagini Reali Viste Nelle Spettro Dell'infrarosso Di Sistemi Stellari Appena Nati. LA PRESENZA DEI PIANETI è determinata dai 'cerchi' "vuoti", perché è dove il pianeta è passato a catturare il materiale.
La QUARTA Immagine è solo una RAPPRESENTAZIONE ARTISTICA , in cui i pianeti orbitano attorno alla stella
.
⛔Ora, io avrei intenzione di terminare qui la serie, e cominciarne un'altra sul MULTIVERSO!
Quindi, scrivete commento per commento "M U L T I V E R S O" se preferireste questa serie a quella degli esopianeti!
Se siete affezionati a questa serie, fate la stessa cosa, però con la parola "Esopianeti"
BUONA GIORNATA DEL PI GRECO!
Ma quanto è bello dedicare una giornata alla più famosa costante matematica?
Come Halloween, il Pi Day viene dagli USA e si festeggia il 14 marzo. Per una notevole coincidenza, questa è anche la data di nascita di Einstein e la data di morte di Hawking (esattamente un anno fa...). La cosa bella è che se cercate su Google “equazioni di Einstein” (cioè le equazioni della relatività generale) troverete che nell’equazione campeggia un bel pi greco; idem (ma è più nascosto) per l’equazione più famosa di Hawking, quella sull’entropia dei buchi neri.
Ma il pi greco è ovunque in fisica.
Principio di Heisenberg, alla base della meccanica quantistica: c’è il pi greco.
Equazioni di Maxwell, che descrivono l’elettromagnetismo: c’è il pi greco.
Leggi di Keplero, che dicono ai pianeti come muoversi: c’è il pi greco.
Potrei andare avanti all’infinito, ma a proposito di infinito, nel bicentenario dell’Infinito di Leopardi non posso non parlare delle infinite cifre decimali di pi greco.
Non è stato ancora dimostrato rigorosamente, ma se associate opportunamente cifre a lettere potete trasformare il pi greco in un testo infinito, al cui interno troverete tutto: la biografia di chi non è ancora nato, il testo di quella lettera che non avete mai buttato, il manuale di istruzioni di un pelabanane, tutte le risposte sbagliate a tutte le domande giuste, e un numero infinito di volte troverete scritto «Non succederà mai» in tutte le lingue del mondo. Grazie, pi greco.
Questo è vero per molti numeri irrazionali, ma il pi greco ha un fascino speciale per noi umani. L’idea che un singolo numero codifichi una proprietà universale ce lo fa sentire come “magico”.
Bastano 15 cifre decimali per calcolare le traiettorie delle sonde spaziali. Eppure impieghiamo supercomputer potentissimi per trovare sempre nuove cifre. Oggi siamo a 31.000 miliardi di cifre. Perché lo facciamo, anche se non ha utilità pratica?
Perché siamo Homo sapiens, esploriamo. Forse vogliamo esplorare quel “magico” di cui parlavo.
Siamo Homo sapiens, cerchiamo schemi. Nella speranza che possano indicarci la risposta giusta alla domanda giusta.
Perché è chiaro che “42” non lo è. -Filippo
C’è un dubbio amletico che attanaglia i cosmologi: qual è il tasso attuale di espansione dell’universo? Ok, può non sembrare un problema serio, ma lo è per i cosmologi lo è.
Ci sono due metodi per misurare il tasso attuale di espansione dell’universo (ma se lo chiamate “parametro di Hubble” sembrerete più fighi alle feste). Il primo è osservando un certo tipo di supernovae, il secondo consiste nello studio della radiazione cosmica di fondo (alle feste chiamatelo “CMB”, vi cadranno ai piedi). Questi due metodi sono indipendenti, quindi se i due valori misurati del parametro di Hubble sono compatibili significa che siamo a cavallo.
Il problema è che non sono compatibili.
Le supernovae ci danno un valore di 66,9 (l’unità di misura poco importa) con un’incertezza di 0,6; il CMB ci dà un valore di 73,5 con un’incertezza di 1,7.
Evidentemente qualcosa non va.
Il problema è serio perché questi valori si basano su ipotesi che riflettono quello che sappiamo sull’universo. Questa discrepanza significa pertanto che c’è qualcosa di sbagliato nel nostro modello cosmologico oppure che c’è qualcosa di cui non stiamo tenendo conto.
Ma forse c’è un modo per uscirne. Nel 2017 abbiamo rilevato onde gravitazionali prodotte durante la fusione di due stelle di neutroni (“kilonova” è il termine da usare alle feste, e magari mostrate pure questa bellissima impressione artistica; sì lo so, vado a feste un po’ strane...). Questi oggetti, oltre alle onde gravitazionali, emettono anche luce.
Le onde gravitazionali ci dicono quanto è lontana la kilonova, la luce a che velocità si sta allontanando da noi. Con questi due dati si può ottenere una misura indipendente del parametro di Hubble e quindi una preziosa indicazione per risolvere il conflitto tra supernovae e CMB.
Uno studio appena uscito mostra che basterebbe osservare circa 50 kilonove per misurare il parametro di Hubble con una precisione sufficiente: obiettivo raggiungibile in una decina d’anni.
Questo lasso di tempo però va preso con le pinze, perché non sappiamo qual è il tasso effettivo di esplosioni di kilonove: in fondo ne abbiamo vista soltanto una! -Filippo
Credits: ESO/L. Calçada. Music: Johan B. Monell
Einstein in pantofole pelosissime (e probabilmente comodissime), negli anni cinquanta.
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Per fare un tavolo ci vuole il legno, per fare il legno ci vuole l’albero e per fare una pulsar ci vuole una supernova.
Ok, forse Sergio Endrigo non cantava proprio così, ma è innegabile: non c’è pulsar senza che ci sia stata prima una supernova.
Ed eccole qui, pulsar e supernova, in questa magnifica immagine composita in banda radio.
La “bolla” che domina la scena è CTB 1, il resto di una supernova esplosa 10.000 anni fa nella costellazione di Cassiopea. La pulsar si chiama PSR J0002+6216 ed è un minuscolo puntino in basso a sinistra del resto di supernova, ma quello che ci colpisce è soprattutto la bellissima scia colorata di arancione lasciata dietro di sé dalla pulsar.
In principio c’era una stella di grande massa. Al termine della sua vita la stella esplode come supernova e libera i suoi strati esterni nell’ambiente, creando una violenta onda d’urto che “accende”, ionizzandolo, il materiale circostante: ecco la nebulosa CTB 1. Gli strati interni della stella, invece, collassano su se stessi con tanta forza che la materia stessa degenera in un agglomerato di neutroni. Si forma così la pulsar PSR J0002, una stella di neutroni pesante circa come il Sole ma col diametro di Milano, con un campo magnetico spaventoso.
Ma se la pulsar è parte della stessa stella che è esplosa come supernova, non dovrebbe essere al centro della bolla invece che fuori? In effetti è una situazione estremamente rara da osservare. Evidentemente l’onda d’urto dell’esplosione l’ha fatta schizzare via come una pallina da flipper. Ma la cosa più incredibile è la velocità con cui lo sta facendo: quattro milioni di km/h!
Non sappiamo cosa abbia potuto accelerare tanto PSR J0002, ma sappiamo che è destinata prima o poi a lasciare la nostra galassia e ritrovarsi da sola nel buio dello spazio intergalattico.
Fortunatamente non passerà di qui. Ve lo immaginate, un proiettile con la massa del Sole sparato nello spazio a quella velocità, quanti danni potrebbe fare se incontrasse il sistema solare? -Filippo
Credits: Composite by Jayanne English, University of Manitoba, using data from NRAO/F. Schinzel et al., DRAO/Canadian Galactic Plane Survey and NASA/IRAS
Ci sono incontri che risultano in un anello.
Quando succede a noi esseri umani, l’anello è fatto di un metallo prezioso e finisce al dito di una persona che consideriamo altrettanto preziosa. Quando succede agli hobbit, l’anello finisce dentro un vulcano e l’hobbit ci rimette anche il dito. Quando succede alle galassie, l’anello è formato da innumerevoli stelle azzurre.
NGC 1398 è un capolavoro di purezza delle forme e delle linee. Pininfarina stesso non avrebbe potuto fare di meglio. Puoi guardare una galassia così per ore. E – parafrasando Nietzche – se scruti a lungo una galassia a forma di occhio, anche la galassia scruterà dentro di te. Dalla distanza a cui si trova questa galassia (65 milioni di anni luce), se qualcuno laggiù avesse telescopi abbastanza potenti per poter guardare la nostra Terra, la vedrebbe popolata da grandi rettili del tutto ignari dell’arrivo di un gigantesco asteroide.
A dare a NGC 1398 la forma di un occhio è un doppio sistema di anelli. Quello centrale, circolare, e quello esterno, ellittico, che in realtà non è un anello ma uno strettissimo avvolgimento di bracci di spirale.
Come si sia formato un sistema così peculiare è una bella domanda. La risposta più probabile è, come nelle storie più belle, un antico incontro. Un incontro gravitazionale tra NGC 1398 e un’altra galassia. Un incontro che ha prodotto un’onda di densità circolare, risultando nella formazione di nuove stelle a sembrare un’iride.
Ma non è finita qui. Se osservate l’interno dell’iride noterete una barra che la attraversa da parte a parte. La barra è tinta d’ocra essendo popolata di stelle più fredde e calde rispetto a quelle dell’anello. È una struttura comune nelle galassie a spirale. Si pensa che le barre siano temporanee, anch’esse dovute a onde di densità che si dipartono dal nucleo galattico.
Ci sono incontri che non risultano in un anello: sono la maggior parte. Alcuni vorresti finissero così, ma per un motivo o per l’altro non lo fanno. Quando succede, però, è sempre uno spettacolo: tanto sulla superficie di questo piccolo puntino azzurro, quanto nelle profondità sperdute e distanti del cosmo. -Filippo
Credits: ESO
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